Tradurre la letteratura 2023
XVII edizione
Da più di un quarto di secolo, giovani e meno giovani che amano le letterature e vogliono ridirle nella nostra lingua frequentano – con la passione e il desiderio che muovono le imprese difficili – la nostra Scuola di traduzione letteraria. Ventisette anni sono un tempo lungo: non si resiste così tanto, né si hanno 500 allievi se non si crede fino in fondo che letteratura e traduzione non sono semplicemente un di più della vita, ma sono la vita stessa.
Ma cosa ci attrae nella traduzione? Cosa ci appassiona in questo compito che rimarrà incompiuto, non definitivo? Perché, lo sappiamo, nessuna espressione, nessuna parola, sarà mai perfettamente uguale a quella di un’altra lingua e dunque qualunque soluzione sarà sempre provvisoria. Perché sfidare l’eterogeneità radicale del linguaggio? Che senso ha uno sforzo che sembra destinato al fallimento? Humboldt rispondeva dicendo che la traduzione, soprattutto quella letteraria, è uno dei compiti più necessari per una letteratura, perché fornisce a coloro che non conoscono la lingua forme di umanità che altrimenti resterebbero estranee. Si tratta di un incontro che è sempre "di cospicuo vantaggio" per ogni popolo, perché come tutti gli incontri favorisce il cambiamento, trasforma le lingue, il modo di guardare la realtà, il mondo attorno a noi. Si traduce, dunque. Si traduce perché tradurre ha a che fare con la nostra identità. Si traduce perché è la nostra umanità che lo richiede. Non si è mai smesso di tradurre, contro ogni impossibilità della traduzione, nonostante tutti gli intraducibili, è un’esperienza a cui siamo necessariamente chiamati.
Chiediamoci ancora: che cosa cerchiamo in un libro tradotto? Certo qualcosa in cui possiamo riconoscerci, ma anche e con più desiderio ciò che ci è estraneo o forse incomprensibile. C’è un desiderio di relazione nella traduzione, un desiderio di definire il proprio sé nel rapporto con l’altro da sé, che non escluda l’altro ma lo riconosca. Come se nella relazione con l’altro, rappresentato dal testo straniero, potessimo meglio scorgere la nostra soggettività. Ma ancora di più, come se nell’incontro con l’altro da sé fosse possibile superare la nostra limitatezza. Dunque sì, traduciamo perché abbiamo lingue diverse ma in quella diversità riconosciamo un valore, una possibilità di completamento. Lo sappiamo, siamo perfettamente consapevoli che ci manca qualcosa nel leggere la realtà e che abbiamo bisogno di un altro che ci aiuti. E solo quando siamo esposti alla diversità che le lingue ci impongono e capiamo che quella diversità non è estraneità, solo in quel momento abbiamo come la sensazione di poter andare oltre la nostra finitezza.
Allora tradurre è importante perché mettendoci di fronte alla diversità ci ricorda la nostra fragilità e la fragilità dei mezzi con cui costruiamo le nostre identità individuali e collettive e come con queste entriamo in relazione con gli altri. Ci fa fare i conti con le insicurezze che impediscono di andare incontro al dialogo. Va al di là dei muri, ha a che fare con il modo in cui gli individui e le culture riescono a costruire la propria identità in un processo che vede in gioco la differenza, la somiglianza e il tentativo di far dialogare il sé e l’altro da sé.
Ecco, da più di un quarto di secolo anni facciamo Tradurre la letteratura anche per mostrare nell’esperienza concreta delle lezioni, dei laboratori e dei seminari tutto questo.
Una storia che è diventata realtà grazie ai tanti che l’hanno resa possibile.
Per
questa edizione, un ringraziamento speciale va a Franca Cavagnoli, Anna Mioni,
Yasmina Mélaouah, Giovanna Scocchera, Emanuelle Caillat, Giuseppe Ghini, Ilide
Carmignani, Anna Ruchat, Claudia Tarolo, Franco Nasi, Susanna Basso, Davide
Rondoni, Isabella Blum e Simona Mambrini.